STORIA DI UOMINI E PIETRE
 due pannelli 5x8m ciascuno Riomaggiore (SP)

 

 

 

 

STORIA DI UOMINI E PIETRE Un dittico tra mito e realtà "Il viaggio di una fotografia" "Racconto popolare"

VI RACCONTO Con ferocia ludica, ebbro di solvente, getto, colpisco. Il colore si frantuma, scivola quà e là incidendo con apparente casualità. Ora organizzo, non posso farne a meno, l'informe in forma (povero Dionisio!). Il magmatico, lo stratificato policromo, diviene pietra (prima fu il caos, poi venne l'intelletto e mise ordine). Il sole gioca facendo luccicare la superficie litica ancora bagnata. Ancora colpi di spatola: zà e zà, zazà! Ma qualcuno parla (prima fu il Verbo e poi la banda di Pignattaro). Vi racconto.

STORIA DI UOMINI E PIETRE
 tre pannelli 5x8m ciascuno Riomaggiore (SP)

L'OPERAIO E ULISSE Dall'alto del ponteggio (ripido lo sguardo) stupore magnifico vidi (che bello stupirsi ancora!). Questo vidi negli occhi di quell'operaio che si fermò davanti al mio murales, sotto la luce delle alte vetrate, ed esclamò Ulisse! Questo disse vedendo la grande titanica figura che regge una pietra, mitico masso, tra le mani. Si allontanò, tra impalcature e barattoli, e tra sé ripetè il nome. E sbagliò, si e no, pensai. L'operaio senti il ciclopico del posatore di pietre e trasferì nella sua mente la potenza di Polifemo all'ingannatore Odisseo, quello con lo sguardo traverso. Nessuno diede lettura più breve e giusta, come nessuno diede più alta poesia di Dante pur sbagliando sul destino di Ulisse (che voglia di trastullarmi in smemoratezza senza follia!). Questo pensai, mentre la luce si richiudeva sopra di me (per ora tarda o per tempesta?). Ora canto, aedo, col mio murales l'immane impresa di quegli uomini, maestri costruttori di muretti a secco che ho incontrato e disegnato dopo lungo andare già negli anni '60 fieri del loro lavoro e della propia identità.

STORIA DI UOMINI E PIETRE Così ho voluto cantarli senza eroicità né trionfalismi, senza "democraticità" né idealismi. Ho dipinto uomini dai gesti antichi che salvano la loro terra alzando muretti pietra su pietra. Uomini che decidono da sé, non in sudditanza, ed è per questo che qualcuno ben mi disse guardandoli raffigurati "c'è fatica ma serenità sui volti", volti duri ma sereni, volti senza facezie né ambiguità, volti come il paesaggio, rughe come solchi che non accolgono impostori, giullari ed arroganti, ma semi di libertà. Ho dipinto uomini che puntellano il suolo: uno porge tra le spine, uno regge tra corbezzoli e caprifogli, uno posa tra salamandre, uno colpisce spaventando ghiandaie (un attimo prima? Un attimo dopo?).

LE PRIME IDEE Come è nata l'opera? Vi racconto. Ho parlato con una foto, me l'ha mostrata il Doriano e ne sono rimasto affascinato (chi è l'uomo là in cima?). Ed è nato il bozzetto per "Il viaggio di una fotografia". Ho parlato con loro, loro chi? Loro che scendendo dai campi, e sopra loro un gabbiano, mi salutavano. Nominarli per nome e cognome sarebbe come dire "scyliorhimus canigula" nell'indicare quel "gattuso" che nuota alla Palmaria vittima ignara dello Slowfood. Sono il Giuanon, il Chenìn, il Tonio. Li ho dipinti con colori resistenti quanto loro (ostinato il degrado, ostinati loro): non dico "li ho dipinti con epossidici, smalti no-fire, e acrilici poliuretani", e non chiamo laurus argentatus quel gabbiano che sopra di loro vola. Così è nato il bozzetto per "Racconto popolare". Poi, ancora, una foto del Fregoso mi attira. (Chi sarà la donna là in alto?). La dipingerò altrove, forse.

STORIA DI GABBIANI E DI PIETRE Un giorno (quale?) dipingevo il bianco grigio, sfuggente volo di un gabbiano. Sentii sopra di me colpi (recondita armonia interrotta): un gabbiano gettava pietre, checché ne dicano gli etologi. Vi racconto. Si muoveva sopre il tetto dell'alto capannone. Si intravedeva all'esterno della lunga vetrata. Nitide dal basso solo le palme delle zampotte. Scorrazzava e gettava pietre sopra i vetri coperti di salsedine. Gioco o dispetto? Spesso i gabbiani lo fanno, mi raccontano gli operai. Dunque gioco e non protesta per aver io in alto dipinto un altro e non lui. Giorni dopo (quanti?) si impose prepotentemente una donna nel mio monitor interno. La sua immagine passò poi al braccio, alla mano e al pennello per sovrapporsi nel dipinto solo ad un'ala. Così restò, metamorfosi per un poco. Poi prese definitivamente il sopravvento e il gabbiano scomparve: sia dal murales sia dai vetri. Via le zampotte viste dal basso, il tamburellare, le sassate. Sentii la sua assenza. Lo dipinsi nuovamente, ora più in alto, sulla sommità. Tornò il simulacro, il visitatore no. Ecco come una donna è sorta dietro la vigna, tra luna e sole, avanza quasi sospesa, sulla testa una pietra in equilibrio (fra il suo piede e la terra passa l'aria). Vola più in alto di quel gabbiano che conosce l'emigrazione e l'esodo, quel gabbiano che a volte nidifica altrove ed altre nella propria terra. Quel gabbiano che, malgrado lui, martorizza in altri mari balene. Che, planando ha visto (ripido lo sguardo) navigare verso l'America il leudo Manin oggi carcassa come quelle carcasse di ossa calcinate che io migratore vidi nella "Valle de la Muerte" nella mia Tucumán e che portai negli occhi e nei miei disegni fino a Manarola negli anni '60 appena sbarcato a Genova (erano i tempi della Festa dei Pittori di Dario Capellini mentre con Gianni Amico si parlava di cinema e di samba). Lo sguardo della donna vola lontano tra Santuari ed orizzonti, tra cielo e terra cattura il vento (che matta voglia di ebbrezza) oltre il Mesco, oltre gli uliveti, oltre i crinali (vorrei, come il cileno d'altri mari, gettare le mie tristi reti nei tuoi occhi oceanici ebbro anche di sciacchetrà con i miei occhi irrigati di rossi coralli). Così volò lo sguardo. Così volò il gabbiano sopra le pietre.

TRACCE, SOVRAPPOSIZIONI Così volo io pittore itinerante (alcuni ricordi si attaccano, fitti, densi, inabissati come filogramma, altri emergono, balzano come delfini giocherelloni. Quell'uomo là in alto si chiamava Gino. Chi è quella donna là in alto? Che pazza voglia di memoria!). Io, che bambino, tentai di far rimbalzare pietre nel Rio de la Plata; io che, ragazzo, nei licei di Buenos Aires sentii rimbalzare rime pietrose contro la mia mente vagabonda, quanto anni dopo sentii rimbalzare i selciati di Parigi contro gli scudi metropolitani; io che, uomo-bambino, giocavo con pietre di vetro a Scilla e a Cuernavaca alzavo roventi pietre cercando scorpioni. Io che in Sicilia, bianchi capelli, sangue misto anche sicano, sopra le pietre ho dipinto. Ho dipinto cento massi in una valle. Io che, ancora illuminato di tramonto, qui a Riomaggiore dico che le pietre saranno parole.

Silvio Benedetto 
Riomaggiore, dicembre 2002

 



 

© SILVIO BENEDETTO by SIAE 2006 testo e foto